Di Eric Rittatore
Il Duncan Studio di Pasadena è composto in prevalenza da ex animatori Disney, tutti specialisti nella tecnica manuale 2D, ritrovatisi su piazza dopo la scelta della Casa del Topo di dedicarsi esclusivamente alla CG. Ken Duncan, il fondatore, vanta una lunga esperienza in Disney quale specialista in personaggi femminili, come Megara (Hercules), Amelia (Il pianeta del Tesoro), Jane (Tarzan). Chiamato a realizzare le sequenze animate per Il ritorno di Mary Poppins, Duncan ha radunato un team di 100 animatori tra cui spiccavano i veterani Tom Bancroft e Sandro Cleuzo.
Come già era accaduto con l’autrice dell’opera letteraria da cui il film prese spunto – quella P.L. Travers prima di fatto relegata in un cantuccio della memoria e più di recente quasi trasformata in un personaggio disneiano – con l’apertura della ‘stagione dei premi’ è risultato subito evidente quanto Disney si mostrasse ritrosa nel concedere il dovuto riconoscimento al Duncan Studio, mantenendosi su una genericità che attribuisce alla casa madre tutto il merito: “ex animatori Disney e Pixar (!) richiamati dal pensionamento (?) per lavorare a questo film”. In realtà, gli artisti in questione sono ancora attivissimi nell’industria, malgrado il giubilamento dagli Studios di Burbank, e alcuni hanno dovuto pure constatare l’assenza del proprio nome nei crediti del film, cosa cui ha cercato di ovviare lo stesso Duncan creando un elenco con tutte le professionalità coinvolte. Questo almeno per quanto riguarda il premio Oscar, mentre agli ultimi Annie Awards, assegnati da Asifa-Hollywood, e malgrado il logo Disney campeggiasse in primo piano, lo studio Duncan si è preso una parziale rivincita aggiudicandosi il premio per la Miglior Animazione di Personaggi: a nome di tutto il team, ad alzare la statuetta sono stati Chris Sauve (supervisore), Sandro Cleuzo e James Baxter.
Tra il capolavoro del 1964 e questo sequel è passato del tempo. E si vede.
Il film di Robert Stevenson funzionava a prescindere dagli inserti animati. Era un perfetto meccanismo cinematografico innestato anzitutto sull’estro musicale degli Sherman Bros e sulla sopraffina professionalità di un gruppo di attori ‘vecchia scuola’, capaci di eccellere anzitutto nelle gag brillanti e nei numeri musicali, su tutti Julie Andrews e Dick Van Dyke, senza dimenticare i dolceamari Signori Banks di David Tomlinson e Glynis Johns. Come in una pièce di Broadway, tutto funzionava come un orologio, al punto che forse il mito di “Supercalifragilistichespiralidoso” sarebbe nato anche senza i cartoons. Ma all’epoca zio Walt aveva a disposizione un patrimonio che non poteva non impiegare, e soprattutto una ‘visione’ in grado di valorizzare ogni eccellenza a sua disposizione: ringraziamo che l’abbia fatto, pur tradendo profondamente il libro e la sua autrice.
Nel sequel odierno, invece, la cosa migliore sono proprio le animazioni. Che, come detto, NON sono farina della Casa del Topo. In esse si percepisce una sorta di ‘nostalgia’, di rimpianto per un tempo in cui i film non venivano ‘assemblati come una Nissan” (secondo un agghiacciante spot promozionale del film) ma, pur nel rispetto delle regole commerciali, ideati e cesellati come singole opere d’arte in cui ogni elemento risultava fondamentale.
Pur rispettando e apprezzando l’impegno appassionato di Emily Blunt e Lin-Manuel Miranda, peraltro penalizzati da canzoni dimenticabili e di fatto ‘divorati’ dal mitico Dick nel suo brevissimo cameo finale; tralasciando il resto del cast, alle prese con personaggi appena abbozzati e più pittoreschi che ‘meravigliosi’; passando anche sopra ad un intreccio che parte patetico e si risolve sbrigativamente in burletta, e una sensazione generale di imbarazzo nei confronti del pluridecorato predecessore, ci azzarderemmo a sostenere che questo nuovo Mary Poppins viene ben sintetizzato nella sequenza ‘mista’ sulle note di L’abito non fa il monaco (pallida imitazione dell’icona pop Chicago) in cui, a differenza dell’amoroso connubio tra uomini e disegni in cui Bert diventava “pinguino tra i pinguini”, gli attori qui paiono evitare di incrociare lo sguardo con le loro controparti cartoon, come se il confronto pesasse loro più di quanto vorrebbero ammettere.
Due mondi che si incrociano il tempo di un valzer, o di un fox-trot, per poi dirsi addio.
Forse la verità, pura e semplice, è che manca zio Walt.
Il logo Disney non basta più perché “la pillola vada giù”.