di Giannalberto Bendazzi
Diciassette anni fa, Michaël Dudok de Wit vinse virtualmente ogni premio possibile (compreso l’Oscar) per il cortometraggio Father and Daughter, ”Padre e figlia”. Era la storia, metaforica e intensa, di un padre che lascia la figlia bambina e si allontana su una barca a remi. Lei lo cercherà per tutta la vita, invano.
Ora il padre, potremmo dire, è approdato. Lo vediamo su una spiaggia nelle prime immagini de La Tortue Rouge (La Tartaruga Rossa, 2016), mentre fissa, solo, il mare che gli ha fracassato l’imbarcazione. Da questo momento in poi tenterà con tutti i mezzi di sottrarsi alla sua condizione di naufrago; ma una grande tartaruga rossa, tanto pertinace quanto lui, glielo impedirà sempre. La lotta del Robinson Crusoe di De Wit è contro la natura (e in questo ricorda il documentario L’Uomo di Aran di Robert Flaherty), contro un nemico che ha forze superiori (la mente va al romanzo Moby Dick di Herman Melville), contro il destino (ricordando quel capolavoro misconosciuto che fu il film L’Isola Nuda di Shindo Kaneto).
Ma le apparenze ingannano. Man mano che procede, il film svela la sua emotività costruttiva di storia d’amore. L’uomo ribalta la tartaruga ostile, per farla morire e vendicarsi. Ma dal carapace del rettile, dopo qualche giorno, esce una donna, assieme alla quale egli farà coppia e diverrà genitore. La storia si chiude nel momento in cui il figlio, ormai adolescente, lascia i genitori, come si conviene in natura.
Non siamo di fronte all’ennesimo film di propaganda ecologista, ma a una smagliante poesiadove il tutto è il tutto, e l’uomo ne fa parte. La tartaruga ama quell’uomo assai più di quanto le amiche, il marito, i figli amassero quella donna-figlia del cortometraggio, che rimaneva comunque sola, un’orfana redenta solo nel finale.
Durante una conferenza ai colleghi cineasti francesi riuniti a Fontevraud, nell’autunno 2016, Michaël Dudok de Wit descrisse a lungo le grandezze e le minuzie figurative e grafiche della Tartaruga Rossa. Non parlò del “messaggio”. In altri termini, illustrò i dettagli attraverso i quali lo spettatore smaliziato poteva leggere il film e cogliere, secondo il proprio grado di finezza e di cultura, la propria razione di quel messaggio.
Non ci sono parole, non c’è musica. Solo suoni. Fosse stato dialogato, avrebbe forse finito per diventare lo stanco prontuario di propaganda ecologista che paventavamo sopra. È invece un’opera di alta, umanistica arte audiovisiva, arte cinematografica nel senso più sincero e migliore.
Un film che di certo non è passato inosservato alla squadra di Cartùn…