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“L’ispirazione di Celentano? Lasciamola dove è sempre stata: in via Gluck.”

di Giannalberto Bendazzi

Cinquant’anni di studi sull’animazione mi obbligano a dire la mia sul caso Adrian

Quello che si è visto finora è stato brutto, e aiutatemi a dire brutto. Tecnicamente e narrativamente è stato un fiasco, e aiutatemi a dire fiasco. Il fascino divistico però è come la fede della curva, e Adriano Celentano è uno dei pochi divi d’Italia: è possibile che a lungo andare i suoi tifosi trasformino questa cilecca nel rombo di un cannone.

Meno legittimo è agitare il fantasma della novità. L’opposizione alle dittature, la critica sociale, la disumanità della post-industria, i migranti, il rispetto per la donna, il consumismo, l’erotismo: tutto ciò viene creduto inesistente nell’animazione pre-Celentano.

Non è così.

La nuova donna adrianea (2019) nelle intenzioni è forte, dolce ma coriacea. Allora però non è Gilda, che lascia campo al voyeurismo.

Il primo lungometraggio d’animazione d’Europa, Le avventure del principe Achmed, risale al 1926 e porta la firma di una donna, dolce ma coriacea, la tedesca Lotte Reiniger. Il film spesso freme di sottile erotismo. I temi politici femministi cominciarono ad approdare sugli schermi animati quasi cinquant’anni fa (Psychoderche di Monique Renault, 1972).

La requisitoria contro l’oppressione, contro il consumismo? Nel 1931 Berthold Bartosch presentava il suo capolavoro L’idea, un classico del cinema di sinistra; nel 1945 Bobe Cannon dirigeva l’antirazzista Brotherhood of Men (Fratellanza fra gli uomini); nel 1968, il lungo segmento ribelle di Vip, mio fratello superuomo di Bruno Bozzetto fu una satira senza mezzi termini contro la manipolazione dei cervelli.

Durante la Guerra Fredda (1947-1991) i Paesi che orbitavano attorno a Mosca subirono repressioni politiche di tutti i tipi, e i loro animatori altrettanto. Il polacco Miroslaw Kijowicz fu arrestato e i suoi film censurati, l’ungherese György Kovásznai fu bandito dalle sale cinematografiche del Paese, i cecoslovacchi Jiri Brdečka e Jan Svankmajer vissero da esiliati in patria. Polacchi, ungheresi, céchi, ma anche bulgari, romeni, estoni, lettoni e russi stessi adottarono per decenni la mascheratura del film “esopico”: cioè un’apparentemente innocua storiella che conteneva veleno se decifrata come allegoria. Negli Stati Uniti, per ragioni opposte ma uguali, John Hubley lasciò Hollywood per realizzare film istituzionali e pubblicitari. Gli esuli argentini, uruguaiani e cileni andavano ad animare in altre repubbliche latinoamericane, ogni volta che si presentava al balcone il tirannello di turno.

L’uomo comune che diventa eroe è alla base dei migliori western, dei film di guerra americani post-Pearl Harbor, e dei film giapponesi post-Hiroshima. Il capostipite di tutti i teleprodotti giapponesi in animazione, Astro Boy di Osamu Tezuka, è creato su questa falsariga; e precede Adrian di cinquantasei anni.

Sono stato noioso? Mi spiace. Ma ci voleva. Discettare sull’animazione senza saperne abbastanza è un’abitudine troppo diffusa e radicata in Italia.

E l’ispirazione di Celentano? Lasciamola dove è sempre stata: in via Gluck.

Giannalberto Bendazzi

Il Secolo XIX – 30 gennaio 2019

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